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DA TORINO ALL'HIMALAYA - LORENZO ALESSANDRI (Artista) / Torino, 1927 - Giaveno (TO), 2000
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Testi tratti da: R. Rossotti, 'Torino esoterica', Newton & Compton 2005
Riproduzioni e note tratte da: 'Mutamenti', Sevagram 1981
A cura del Nibelungo

“Sono nato a mezzanotte in una Torino piovosa e malinconica. Certo, stavo molto meglio nel liquido buio del ventre rotondo di mia madre. Sarà per questo che ho sempre odiato il sole e amato la pioggia. La luna ha visitato le mie notti fin dall'infanzia quando, per raggiungerla, bastava attraversassi i vetri chiusi di una finestra e mi arrampicassi sui rami degli alberi del viale.
Lei era là ad aspettarmi sui tetti della buia fabbrica misteriosa che stava oltre il marciapiede, dietro le piante; io mi sedevo su di lei e, insieme, salivamo fino alle stelle.
Era mia. Ero felice. Luna, mia lanterna silenziosa: bianca, gialla, rossa, verde, nera. Mio unico lume. Tiepida mammella che mi nutre di poesia, carezza che mi consola nell'oscurità. Gioia pura dell'infanzia.”

Conversando con il giornalista Renzo Rossotti:

“Torino è una città incantata che da secoli conserva nel suo centro architettonico un 'cuore magico', decrepito che, come tutti i vecchi cuori, porta insieme ai segni di antiche dolcezze e di amori perduti, le cicatrici brucianti di reiterate emozioni e le crepe di infarti micidiali.
Questo 'cuore magico' di Torino è un quartiere il cui perimetro non è segnato da un contorno toponomastico, ma da una linea ideale che lo separa dal resto della città come un confine psicologico: il confine fra il 'fantastico' e il 'reale'.
Rammento una visita notturna del 1955 al cimitero di 'San Pé dij Coi'. C'era la luna e il vento riempiva il cielo di stelle. Intorno a me il porticato, sotto i piedi l'erba nutrita degli umori dei cadaveri cresceva a vista d'occhio. Di fronte: la cappella barocca dalle tegole cadenti e cespugli spinosi. E mentre rapito dal fascino dell'ora schizzavo quanto mi stava davanti, mi si fecero intorno senza rumore, prima un merlo, poi un gatto, un coniglio, poi un altro gatto, poi un vecchio marchese che spingeva la sua vedova su una sedia a rotelle, e poi un violinista zazzeruto. Mi accorsi infine che in un angolo sulla destra, con un grande cappello liberty, c'era anche 'la Morte'. I personaggi non mi disturbarono, forse aspettavano che io avessi finito di lavorare.
A un certo momento dalla parte in ombra del portico uscì sotto i raggi della luna un grande coniglio. Un coniglio in piedi, alto come me, come Harvey (quello della commedia), e si mise in posa. Troppo bello per non prenderne nota, schizzai anche lui e ne ricavai in seguito una xilografia: Visita notturna al vecchio cimitero.”
Alessandri passò a dirmi di quello che si definì 'quadrilatero romano', di Porta Palazzo, del Cottolengo, del vecchio manicomio, mura e riflessi che gli ispiravano il cuore più antico, forse immortale, della città. In questo senso considerava la magia, nelle 'quattro fasi storiche: torinese, capitale dei Taurini, poi del Ducato sabaudo, del Regno di Sardegna, quindi dell'Italia unita. E Alessandri la vedeva con gli stessi occhi con cui guardava Londra, nella sua essenza storica, fino a oggi, il Po come il Tamigi, un tutt'uno che lo appagava e incantava. Rideva, quando mi disse: “Vedi come siamo noi Celtici?”

Conversazione tibetana
Conversazione tibetana
La campagna rassicurante intorno alla mia casa non mi bastava più. Andai in Oriente per la terza volta, o per la quinta, o per la centottava; non ricordo più. Come in altre vite e visite precedenti, vagai a lungo su altipiani desolati, e il nove febbraio dell'ottanta, nella gelida luce dei cinquemila metri, ebbi una muta conversazione con tre impacchettati sulle rive del lago Manasarovar.
Il miracolo dei lama blu
Ero uno di loro, ero un lama dal berretto rosso e li seguivo nel pellegrinaggio attorno al lago. Portavo con me una sciarpa bianca, simbolo di devozione, da donare al Prezioso Maestro. Quando fui in prossimità della sorgente. Egli apparve in cielo sotto le sembianze di un Gran Lama giallo, e con un gesto preciso e assoluto compì l'incantesimo. Tutti i lama divennero blu e io acquistai per alcuni minuti la conoscenza e coscienza dei tre colori fondamentali e delle mie vite precedenti
Il miracolo dei lama blu
Kirtipur: teatro della mia quinta morte
Kirtipur: teatro della mia quinta morte
Nessuno sa quando sarà la sua ora. Il diciannove aprile del settantanove ero a Kirtipur in Nepal. Pregavo per la Pasqua davanti a un vecchio stupa annerito, coperto di muffe e screpolato dal sole implacabile. Vidi materializzarsi sui gradini del tempio un 'mago nero', lo stesso visto anni prima su una pubblicazione
olandese. Agitando i suoi strumenti rituali egli gridò che era giunta la mia ora, e avvenne un grande mutamento. Di colpo il cielo si fece tempestoso e buio. Un vento gelido ripulì e rinfrescò il tempio che fu per un attimo bianco come un grande dolce di meringhe a panna montata. Comparvero altri cinque lama (blu) che con cembali, trombe, campana e tamburello, recitarono la rappresentazione della mia quinta morte. Io assistevo allo spettacolo come a teatro; vedevo il corpo inanimato di Alessandri e mi domandavo come avrebbe fatto l'A.I.D.O. A sapere che era lì, e come avrebbe potuto recuperare le spoglie fin lassù.
Cinquantatreesimo tramonto
Un altro anno tramontava alle mie spalle. Ne avevo compiuti cinquantatré. Alcuni uccelli sanitari (medici e paramedici) mi accompagnavano fuori dalle nebbie, a prendere aria buona sui colli, sui monti, sempre più in alto.
Cinquantatreesimo tramonto
Il posto dall'altra parte
Il posto dall'altra parte
Non mi resi conto che avevamo intrapreso un pellegrinaggio che per disagevoli sentieri ci conduceva verso una meta a me stesso ancora ignota. Ricordo che il sole era appena scomparso quando giungemmo sull'orlo di un abisso pieno di nebbia lattiginosa che ci separava dal 'posto dall'altra parte', un minuscolo convento tibetano che biancheggiava sulla montagna di fronte. Mi domandavo se il vuoto fra me e lassù fosse veramente incolmabile. Il silenzio rendeva imponente lo spettacolo e innanzi ad esso gli accompagnatori
tenevano atteggiamenti diversi. Compresi che non erano infermieri, e osservandoli meglio ricordai di averli già visti circa mezzo secolo prima, su un libro della mia infanzia. Mi parve di riconoscere in uno di essi quel certo Wulvur che tanta parte nefasta aveva avuto in altri momenti cruciali della mia vita.
Sera titubante
La seconda volta che ci trovammo sul bordo di un precipizio, gli accompagnatori (travestiti da avvocati) restarono a lungo titubanti nella sera a guardare i grandi massi di pietra che per la nota forza di antigravità salendo dal canyon, galleggiavano fino al cielo.
Sera titubante
L'altopiano inciso
L'altopiano inciso
Ero un moscone e ronzavo intorno su degli immensi 'crème caramel' circondati di cioccolato nero e panna montata. Vidi muovere qualcosa sul bordo interno del dolce più vicino e fui subito preso da un senso di schifo. Alcuni esseri viventi stazionavano là con fare sospetto. Al secondo passaggio a bassa quota potei riconoscere il pittore Alessandri su una sedia a rotelle, sospinta da una fisioterapista svizzera e da un contabile di alta precisione. Dietro a loro un notaio in incognito, e il noto presidente di una grande fabbrica automobilistica torinese. Leggermente discosto sulla destra un falegname osservava la scena con indifferenza quasi a voler dissociare la sua presenza in quel luogo, per quanto stava per succedere. Mi era passato l'appetito. Ripresi quota col voltastomaco e man mano che mi sollevavo realizzai che stavo sorvolando un immenso altipiano dell'Himalaya, che l'erosione aveva sapientemente inciso in caratteri tibetani (come le tavole xilografiche con le quali i lama stampano i loro libri sacri). La frase che ne risultava era di difficile interpretazione e per me addirittura incomprensibile. Non conosco il tibetano.
Carovana infida
Travestiti da lama tibetani si erano infiltrati in una carovana di pellegrini che doveva raggiungere la montagna sacra. Le mie condizioni di salute mi costringevano ad accettare la loro presenza. Non solo io, ma tutti i membri della carovana diffidavano di loro. Io guardavo con una certa apprensione lo stretto sentiero a strapiombo sul baratro che ci separava dalla meta, perché ero convinto che fosse Wulvur stesso a spingere la mia carrozzella.
Carovana infida
Sedici ottobre sul passo
Sedici ottobre sul passo
Il sedici ottobre valicammo l'ultimo passo. La montagna sacra torreggiava bianca e incandescente davanti a noi, stagliandosi sul cielo buio. L'aria dei cinquemila era rarefatta e cristallina e il silenzio compatto era rigato
soltanto dai ciotoli smossi dalla carrozzella. Un altro mutamento era avvenuto. I lama non c'erano più. Gli accompagnatori si erano ridotti a quattro uccelli nudi, taciturni, tristi e meditabondi che con passi leggeri
pareva sfiorassero appena il suolo. Respiravo a fatica e la mia mente era stanca. Mi abbandonai allora ad un sonno traballante e inconsistente che mi portò molto lontano.
Fuoco bianco a Swayambhunath
Mi risvegliai a Swayambhunath in Nepal. La luna piena era un grande piatto d'argento su un cielo di smeraldo. Il vento strappava i cavi lacerando le bandiere di preghiera ed i drappi rituali turbinavano attorno al pinnacolo d'oro. Un fuoco bianco di follia aveva calcinato tutto il santuario circostante risparmiando la cupola e alcuni personaggi che ivi si erano rifugiati. L'accompagnatore che avevo identificato per Wulvur teneva la carrozzella di Alessandri e dietro a lui un giovane lama pregava con fervore, mentre gli altri uccelli erano in preda all'ansia. Qualcosa di importante stava succedendo perché tutti guardavano con trepidazione verso ponente. L'atmosfera elettrica moltiplicava lo schioccare delle banderuole impazzite con il crepitio delle fiamme. Su questo angosciante incendio di passioni gli occhi dell'Illuminato, da oltre venti secoli tutto
vedevano, tutto capivano e tutto accarezzavano con la loro infinita misericordia. Ad essa mi affidai.
Fuoco bianco a Swayambhunath
Icaro era triste
Icaro era triste
Etere, aria, fuoco, terra, acqua. Nella lunga discesa avevo ormai constatato tutti gli elementi. Più stavo penetrando in essi, più li possedevo dal di fuori nei loro veri significati. Questo fu il mutamento sostanziale.
Vidi contemporaneamente il baratro antichissimo dal di dentro e dal di fuori; senza paura e senza gioia. Senza emozioni. Vidi i cerchi allargarsi sull'acqua e vidi che loro erano rimasti lassù... a guardare.
Delirio a Bhadgaon
Forse ero finalmente dall'altra parte. Il ventidue aprile del settantanove a Bhadgaon in Nepal, appena tramontato il sole, organizzarono il funerale delle mie spoglie. Usarono l'antichissimo carro processionale (per la verità in pessime condizioni) spoglio di arredi, come si addice alla loro modestia (o tirchieria). La pagoda a ruote procedeva traballando paurosamente, cigolando, scoppiettando e gemendo sul duro selciato, e pareva sfasciarsi ad ogni scossone. Una nebbia violetta copriva pietosa la scena agli occhi degli estranei e, nell'intimità che ne derivava, gli uccelli davano sfogo alla loro esuberante fantasia con irriverenti piacevolezze. Deliravano sopra e intorno al carro, precedendolo, seguendolo e frenandone la marcia. Ormai li avevo individuati tutti. Dal tetto dorato Geo Chavez decollava per trasvolare l'Himalaya, Zapotek tagliava traguardi, e Roberto Vitali si godeva i relax d'Oriente. Da metà altezza un famoso banchiere mafioso siciliano
stava sempre per saltare ma non saltava mai, e davanti alle mastodontiche ruote Emilio Salgari tentava un
suicidio rituale. L'unico uccello serio teneva le briglie di tutto il carrozzone. Era Wulvur. Per pura educazione
evito di nominare gli altri. Qualche tempo dopo seppi dal mio amico Roby Rubiolo (che trascorre
praticamente le sue vite in Nepal) che il carro plurisecolare così maldestramente usato, non era più durato a lungo, ma era crollato sfasciandosi in mille pezzi. Ne era stata fatta legna da ardere... le salme.
Delirio a Bhadgaon

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